“A un chiodo dipinto non si appende che una catena dipinta” (Anonimo)

1. - La critica puntata come uno specchio indica, nell’ordine della produzione, il fatto che la costituzione dell’io-corrente non si compie immediatamente, ma pre/tende la mediazione dell’immagine della socialità. Questa immagine della socialità è virtuale, ma non fittizia. Rispetto all’ordine dominante è il negativo che si afferma nella sua perentorietà, come differenza.
2. - La trama della critica (sulla vita corrente) ha l’evidenza di de/filare quei fatti da tutti vissuti e da nessuno osservati. Si potrebbe dire una visione sociocentrica, pensando alla condizione de/centrata dell’individuo con l’ordine significante.
3.- La socialità è una deduzione del divenire. (Fin dalla prima categoria della Logica si postula con estrema chiarezza la questione dell’essere. La genialità hegeliana sta nel mostrare che porlo è già risolverlo. All’inverso di Kant, dunque. Questa è anche la sua modernità, e gli ortodossi non sottovalutino la raccomandazione leninista di studiarne l’opera. Nello stesso senso la critica pone il problema della socialità, che è un’altra cosa dalla socialità tout-court).
4. - La socialità è il superamento (“Aufheben”) della vita corrente come attualità. In essa l’individuo viene inverato (“aufgehoben”), viene a essere ciò che è (“vermittelt”). La mancanza di contraddizione all’interno di questa grammaticazione dei fondamenti della critica, indica il coincidere della necessità dei concetti con la pratica critica delle condizioni correnti di vita. Il lavoro del negativo non è contraddittorio. Anzi, esso mostra la contraddizione, la rottura, la incoincidenza del pensiero borghese, costretto a rifugiarsi nell’area dell’ideologia dove camuffa la propria soggettività dominatrice di classe e il proprio psicologismo, l’identità (volontà) affermata nell’evidenza del dovere/potere. La contraddizione nella (nostra) scrittura critica indica ben altri problemi: si tratta di nude e crude (nostre) impossibilità di pensiero.
5. - L’inverarsi della socialità non produce nulla. Soprattutto non produce l’essere, tanto meno l’essere logico dell’idealismo (neo e gentiliano) o l’essere ideale del Rosmini. La socialità è l’immediato in sé. Questo inveramento è un effetto, un divenire, ma anche un farsi.
6. - L’effetto della socialità tira avanti nel divenire della differenza. Questa differenza attende a una identità senza diversità. Nella tematica hegeliana questa identità è l’essere, di per sé, in tutta la sua futilità; oppure essere necessario, dunque dialettico. In questo senso la differenza non solo tende a essere un opposto, ma deve essere anche distinta, cioè dialettica. Una contraddizione possibile fino all’opposizione pura e semplice. Altrimenti si ricade nella questione kantiana del non pensare, non opporsi, non distinguersi. Dell’essere che è essere semplicemente, una sciocchezza pericolosa che oscura il sociologismo della classe, prendendola per distinta quando è solo l’opposto di un processo più ampio del capitale e della sua produzione di ideologie.
7. - lncettando alla lettera la tensione della vita corrente (l’epifania inquotidiana) verso la socialità si arriva a pensare il produrre come produzione di vissuto. In questo caso si deve accettare il rischio della cucitura: l’unità che il refe del ricordo cuce fra l’io e la sua esperienza nella nuda datità fantasmata dal fittizio.
8. - La descrittura critica, ciò che la critica (di)mostra, è scrittura di una rappresentazione. L’esperienza della socialità non è mai individuale, ma è dell’individualità. Il soggetto frammentato si riconosce, nella descrizione di sé, specchiandosi. L’Altro, ciò che è riflesso, è il riflesso della socialità di sé. Che cos’è la socialità? Domanda priva di risposta. La critica descrive l’immagine che vede, ma questa descrizione di un’immagine virtuale, azzerata dalle parole, è un’altra cosa da ciò che la socialità fa comprendere nel suo in sé al soggetto che si ricostituisce nella frammentazione operata su di lui dalla vita corrente.
8.1. - Che cos’è la socialità? Risposta senza domanda, se la risposta produce quella catena di conclusioni che il soggetto rac/coglie con la trama della critica gettata sulla vita corrente.
8.2. - Non si confonda l’ottica di questo ordine simbolico come se fosse un congegno. Tanto meno come un punto di vista. Non si tratta né di un sistema di specchi cartesiani né di un sistema metaforico. Invece è la peripezia infinita e speculativa attraverso cui la vita corrente si muove. La rivoluzione (intorno a noi) che incendia la questione sociale liberandola dal nodo che inceppa il cambiamento radicale.
9. - Prendere coscienza vuol dire addivenire a una costruzione modernizzata delle teorie o delle ideologie interpretative del mondo e del dominio. Costruzione che la prassi politica pretende di avverare. Procedere per conclusioni, invece, è l’esaurirsi della coscienza che l’individuo esige per avvertirsi nel reale: soggetto della vita corrente. Sicché la questione non è prendere coscienza di una teoria o ideologia politica, ma darsi coscienza della necessità del cambiamento radicale. Questa coscienza inaugura la pronuncia della sovversione che le ideologie, in particolare, frangiano e perdono riducendola a concetto. Darsi coscienza è entrare nella simpatia riflessa dallo specchio della critica.
9. 1. - La certezza divide la coscienza dalla conclusione. Come l’io dell’idealismo, la coscienza è inesistenziale e inessenziale, ovvero incapace di sperimentare a sufficienza la certezza. Ancora e non a caso questi due termini coincidono, per esempio, in Hume.
9.2. - La certezza sbanca i predicati della differenza e il suo teleologizzarsi in opposizione senza scopo al di là della scrittura critica. Fuori di ciò, l’opposizione è descrizione. Sociologia di uno sguardo che il represso rivolge all’opposto. Opposizione fra Dover Essere e Essere che l’immagine del divenire mostra come conclusione dialettica, capovolgendo i termini così come si affacciano nell’idealismo.
9.3. - Nella società dello spettacolo si rovescia il percorso sensista di Condillac: la statua/uomo non diviene (a sé) in questa arte tragica dell’opposizione/apposizione eccessiva in cui 11 sensi spuntano uno dietro l’altro e con essi la ragione e la loro metafisica, la sensazione. Ma l’uomo/statua cancella la memoria di questo fiorire a sé per sopravvivere nella dimensione esplosa della sopravvivenza. Senza lo specchio della critica, del resto, non si va lontano: nessuna rivolta individuale riuscirà più a fare di un blocco di sale una nuova moglie di Lot. Destino tragico di chi chiama fittizia l’immagine riflessa dallo specchio e si volge (perdendo di vista ciò che sta davanti) per ubbidire alla nostalgia dello spettacolo politico.
10. - Conclusioni provvisorie. La funzione epistematica della critica è non dialettica, nel senso della dialetticità degli opposti, di teorico e di pratico. Questa funzione, tuttavia, frangia in una teoreticità (che si sottintende senza possibilità di equivoco) la scrittura. Ma scrittura della critica e critica sono due cose diverse. Entrambe reclamano un centro unitario evidentemente: che la protegga dal precipitare in concetti, la prima; dallo sconfinare nell’intuizione, la seconda. Oggi queste posizioni possono ancora capovolgersi dialetticamente. Questa è l’unica eredità che la ragione pretende dal kantismo che le identifica nella tradizione filosofica come certezza concreta e presenza eidetica.
10.1. - Ne consegue: la vita corrente non è, ma si fa. Essa è instaurata come valore. Il precetto che da essa deriva è ancora incomprensibile (inutilità delle ideologie del vissuto). Rimane, in quanto significato, vano. Frammento di una autocoscienza squartata.
11. - A differenza della teoria (che può esercitarsi solo nei limiti che si è imposta), per la critica affermare un limite (“Schranke”), una margo (della conoscenza), è già oltrepassarlo (con/prenderlo).
12. - Un rapporto analogo a quello che il Dilthey scorgeva fra il sentire individuale e il comprendere, lega l’esperienza della vita quotidiana alla comprensione della vita corrente. La critica, in questo senso, è una forma di socializzazione dell’“Erlebnis”.
12.1. - Le teorie rivoluzionarie in genere cominciano con qualche presupposto, la critica comincia con un immediato, la vita corrente. Da questo non sapere (per dirla con un hegelismo) procede verso la socialità (l’hegeliano sapere assoluto) attaverso una serie di forme della conoscenza. Per conclusioni
12.2. - La conclusione è un giudizio che esiste come giudizio. A differenza della coscienza che esiste soltanto in rapporto al suo predicato (nell’area del materialismo dialettico): la classe.
12.3. - Si potrebbe dire che la conclusione critica sta alla “presa di coscienza” della teoria rivoluzionaria come l’immediatezza e la certezza, che è l’essere hegeliano, stanno all’intuito di Gioberti o di Rosmini; al limite, come grado di conoscenza.
12.4. - Hegel esprime intera la modernità del pensiero dialettico (almeno fino a Marx) mostrando come è possibile procedere verso l’infinito dal finito e, solo da questi, senza presupporre altro che il finito. Così la critica è la modernità di una gnosi, altre volte definita politica, che procede verso la socialità partendo dalla vita corrente e non presupponendo niente al di fuori di essa.
12.5. - Il passaggio dalla vita corrente alla socialità è percettibile soltanto nell’area della scrittura. Intanto non è compiuto dalla vita corrente, perché corrente. Cioè non lo fa nel senso che non ha coscienza di farlo. Non lo fa come coscienza di classe, perché altrimenti dovrebbe saperlo. Questo passaggio non è naturale (corrente), ma è ideale (in senso hegeliano), cioè critico. È l’idea stessa della vita corrente che giunge a comprendersi, si potrebbe dire, inverando, al di là delle forme del dominio ideologico, il sapere immediato.
13. - Nell’espressione “vita corrente” l’universale è il soggetto della critica, il particolare è il predicato. Si può concludere in termini hegeliani che il vero universale è proprio la negazione assoluta. L’opposizione.
14. - Le conclusioni critiche che procedono dentro l’area delle proprie risonanze, del proprio processo, trasformano il soggetto (l’idea hegeliana) nel senso che il soggetto è il processo. Nella società dello spettacolo, dove il dominio tende a dissolvere il soggetto, la critica si afferma come processo. È il soggetto esistente come processo al di là di ogni teorizzazione freudo-marxiana. In questo senso la critica è, ma non esiste, a differenza della coscienza di classe che esiste ma non è. Perché, appunto, la coscienza di classe nell’epoca del dominio è diventata un oggetto: l’oggetto naturale come si definisce nel pensiero hegeliano.
15. - Infine. La socialità, che la cecità delle ideologie e delle teorie non è in grado di ri/conoscere, altro non è che l’incognita di cui la critica si è riserbata in petto il segreto.

Bernard Rosenthal


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